Essere giovani in un Paese sempre sommario e spesso rozzo, in un Paese dove politici, media e intellettuali fanno a gara a sparare o cavalcare formule superficiali e modaiole è cosa non semplice.
L’Italia è un paese per vecchi dove impera la gerontocrazia. Dove i docenti universitari sono i più vecchi del mondo; per non parlare dei politici, anziani e inamovibili.
Poi contrordine. L’Italia è un paese rottamatore, dove se sei bravo, hai esperienza e non sei sostituibile di botto in una certa posizione, beh te ne devi andare lo stesso, perché ci vuole il rinnovamento generazionale. (E Dio ci guardi dai giovani che “rampano” nelle segreterie dei partiti. Lo dichiaro: sono quasi sempre peggio di chi li ha cooptati).
Per gli adulti/anziani, diciamo per quelli “che hanno fatto il ’68” (tra cui chi scrive), i giovani fanno cascare le braccia, sono ignoranti, il congiuntivo è per loro come se non esistesse, non leggono un giornale, non conoscono l’anno dell’unità d’Italia. Ma soprattutto non hanno ideali, sono disimpegnati; mentre noi, noi si che ci guardavamo intorno e volevamo agire per migliorare il mondo.
Poi contrordine: i giovani sono svegli e informati, non vogliono che si “rubi loro il futuro”, ed esprimono la loro “rabbia” (ma anche, aggiungo, le loro terribili banalità untuosamente coccolate nelle trasmissioni tipo Santoro) per qualsiasi cosa succeda, anche se si tenta di fare cose ovvie in tutto il resto del mondo, come mettere in rapporto l’università con l’impresa o costruire una ferrovia
I giovani sono giustamente depressi e incazzati perché non trovano lavoro.
Poi contrordine: i giovani hanno poca voglia di fare, non se ne vanno da casa, non vogliono fare lavori non all’altezza, non certo squalificanti ma che richiedono impegno magari manuale, e stanno lì ad aspettare l’assunzione, meglio se pubblica.
Consentitemi delle banalità. Io, ovviamente, sono stato giovane e da anni sono a stretto contatto con i giovani sia nell’ambiente di lavoro sia come docente universitario. E quello che penso è, appunto, molto banale. Ai miei tempi c’erano quelli pere e quelli bravi e brillanti. Oggi ci sono ancora entrambe le categorie pressoché nella stessa percentuale. C’erano i pigri “è sempre colpa del sistema” e gli intraprendenti “bisogna provarci”; ci sono anche oggi. C’erano, come oggi, quelli che si interessavano e si informavano e c’erano gli “asin bigi” della poesia di Carducci (che i giovani di oggi sicuramente non hanno presente)
Certo il mondo è cambiato. Ma credo che non dobbiamo cadere nell’errore di considerare validi le modalità e gli strumenti di conoscenza che avevamo noi e superficiali e cialtroni quelli di oggi. Ed è comunque certissimamente vero che l’ enorme difficoltà a trovare lavoro, al di là dello star lì in attesa del posto con scarsa intraprendenza, può veramente modificare il codice genetico di una generazione, conducendola a forme di disperazione-passività che sono cose serissime e che è spudorato liquidare con formule spesso addirittura offensive come “bisogna inventarsi il lavoro” o “capire che il posto fisso non esiste più”. Magari aggiungendo che questa è una stupenda opportunità per la società del futuro.