Alcune delle cose che nel corso degli anni ha scritto, parole e musica, sono tra le cose più belle della musica italiana: Milady smettila di bere, Le lettere d’amore son lettere d’amore solo se fanno ridere, Tornano tutti gli amici miei quelli del tempo che c’era lei, Un vecchio zingaro ungherese di te parlando mi giurò, Luci a San Siro non ne accenderanno più, Gli anni si aggrovigliano e ancora e ancora.
Forse (a parte magari un paio di cose un po’ fuori portata inventate da Domenico Modugno) solo Francesco De Gregori è stato ed è altrettanto poeta, musicalmente geniale, ma sempre un po’ freddo, straordinariamente distaccato e intellettuale. Vecchioni, pur cantautore colto come pochi, invece ci ha parlato e ci parla si all’intelletto e al gusto, ma anche e soprattutto all’anima, direi allo stomaco. Qualche volta dà cazzotti nello stomaco a chiunque ami o abbia amato, a chiunque abbia o abbia avuto una nostalgia struggente. Sempre un po’ straziante, sempre avvinghiato alla malinconia o alla disperazione che danno il ricordo e il rimpianto. Eppure sempre carico di vita e di entusiasmo.
Giovedì 12 marzo la sala del conservatorio di Milano era strapiena di persone che nei recenti decenni hanno gioito o si sono squassate dentro con le sue canzoni e che gli hanno tributato un trionfo quasi di gratitudine. Non un tour, ma, come ha specificato subito Vecchioni, una serata unica, fatta di canzoni e di dialogo verbale con il pubblico. Una serata realizzata insieme a un’orchestra sinfonica come la Cherubini e pensata e voluta soprattutto per Milano, la città che Vecchioni ama quasi come una donna. Una dedica bella, che ho condiviso volentieri anche io, romano, ma con tanti anni di lavoro a Milano.
Sono molto contento di esserci stato. Le canzoni, a questo livello, travalicano completamente i confini tra i generi musicali, i confini tra “canzonette” e “Lieder”, tra “parole” e “versi”. E’ stata un’emozione grande.