Di più di quando l’Edipo di Sofocle chiude la sua tremenda indagine e grida: “Tutto è ormai chiaro…sono nato da chi non mi doveva generare, mi sono congiunto con chi dovevo fuggire, ho ucciso chi non dovevo uccidere”.
Di più di quando la Grusenka nell’aula del tribunale sfugge a ogni controllo e si precipita verso Dmitrij Karamazov, accusato di aver ammazzato il padre, e gli urla disperata: “Mitja, il tuo serpente ti ha rovinato!”, dopo che l’altra donna di Dmitrij, Katerina Ivanovna, l’aveva di fatto condannato con la sua vendicativa testimonianza.
Di più di quando Amleto vagheggia l’annullamento, il non essere, di fronte al peso della vita, all’affrontare i dardi dell’avversa fortuna: “Morire, dormire…nient’altro…Dormire, forse sognare”. O di quando Otello, che chiede a Iago cosa pensa di Desdemona e di Cassio, si sente rispondere, con una perversione sottilissima e malignissima che fa venire i brividi: “Guardatevi dalla gelosia, mio signore! E’ un mostro d’occhi verdi che dileggia la vittima di cui si pasce”.
Di più dell’intatta luna di Leopardi, del velo delle Grazie di Foscolo, dei sogni di Faust. Di più persino di un altro vertiginoso momento dello stesso autore: quando Ugolino, straziato per sempre come quel giorno in cui ha visto morire i figli, racconta a Dante “Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo ‘Padre mio, ché non m’aiuti?’. Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno”
Ognuno nella vita ha le sue passioni e le sue emozioni estetiche. Quanto a me, la più grande emozione è aprire la Commedia e, con titubanza quasi masochistica, riririririleggere di Paolo e di Francesca, pur sapendo perfettamente che starò male, ma proprio male, per la troppa bellezza.
Francesca infrange tutta la logica dell’inferno dicendo a Dante che, se Dio fosse “amico”, lei lo pregherebbe per ringraziare il poeta (“per la tua pace”) della pietà che mostra per loro. Lei, unica dannata che viene punita in eterno non sola e disperata, come tutti gli altri, ma congiunta a colui “che, come vedi, ancor non m’abbandona”. E che non l’abbandonerà mai.
E “quanti dolci pensier, quando disìo” erano stati all’origine della loro tragedia in vita e della loro condanna dopo la morte. Non, come per tutti gli altri, la cattiveria, il vizio, la cupidigia: invece la dolcezza, il desiderio. Un desiderio dolce.
Per arrivare poi agli ultimi versi, ancora una volta semplici, compresibili e abissali: “Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangea“. Si, semplicemente: lei ricorda la loro storia e lui piange. Non rivendica nulla come Farinata, non maledice come Ugolino, non bestemmia Dio come i dannati disperati, non fa domande come il padre di Guido Cavalcanti. Piange.
E Dante allora torna su di sé e sulla sollecita e solidale pietà da cui aveva cominciato: “sì che di pietade io venni men così com’io morisse. E caddi come corpo morto cade”.
Quasi lo stesso capita a noi che, dopo settecento anni, leggiamo. E mi viene da pensare a un signore che una sera si è seduto a un tavolino, ha preso carta, penna e inchiostro e ha scritto questi versi che, chissà per quale meccanismo che esiste nell’universo in mezzo a dieci miliardi di galassie, gli sono venuti in mente.