Domenica nel primo pomeriggio zappingando (ma per il vero era trasmesso un po’ dappertutto) mi sono soffermato un momento sull’omelia che Papa Francesco stava tenendo durante la messa all’Avana. So che è quasi banale, perché i politically correct di mezzo mondo dicono già continuamente bene di questo papa, ma devo dire che un paio di passaggi mi hanno non solo impressionato ma anche commosso.
Non si tratta di essere credenti o no né, nel caso credenti si sia, a che tipo di credente eventualmente si appartenga. C’è chi pensa che il Cristianesimo sia verità assoluta rivelata e che la Chiesa cattolica (istituzione per secoli autoritaria, intollerante e violenta come poche altre) sia l’unica interprete autentica di tale rivelazione, per cui l’essenza della sua predicazione è l’annuncio, di per sé dogmatico, della verità oggettiva. C’è chi pensa che il Cristianesimo sia amore, e questo non può che modificare la mission della Chiesa rispetto a quanto detto prima. Chi pensa che sia una forma elevata di umanesimo. Chi pensa che sia fede. Chi pensa che sia una norma morale. Chi pensa che sia il frutto, storicamente manipolato, di una tradizione religiosa nazionale ebraica contaminata da San Paolo e dalla cultura ellenistica. Chi ha pensato che sia, come le altre religioni, l’oppio dei popoli.
Francesco ha operato un cortocircuito, ha saltato tutti i passaggi dalla parola di Dio al comportarsi bene e a un certo punto ha detto (il ricordo è imprecisissimo) che compito principale dei cristiani è prendersi cura della fragilità dei fratelli, prendersi cura della loro dignità.
Bellissimo e sorprendente. Da non cristiani si potrebbe lo stesso dire che compito principale dell’essere umano è prendersi cura della fragilità e della dignità degli altri esseri umani, dei più deboli.
La storia umana è quella che è. Il fatto che non siamo uguali, che per lo più non ci amiamo, che si compete continuamente; che si può nascere più o meno buoni, più o meno intelligenti, più o meno fortunati, ricchi o miserabili; che c’è chi è più forte e chi è più debole, chi ha più fame, più paura, più vergogna; che si può vivere con soddisfazione o essere costretti a impiegare tutte le proprie forze e le proprie capacità solo per cercare di sopravvivere: tutto questo è evidente, è da sempre sotto gli occhi di tutti e nessuna fede nella provvidenza di Dio potrà mai convincerci, nel nostro profondo, a farcene una ragione.
Ma l’essere umano, almeno così sembra, ha una coscienza critica, prova il senso del bene e del male, può non accettare fino in fondo una storia basata sulla differenza di forza tra i viventi. Può rendersi conto della fragilità e della debolezza, può darsi da fare perché debolezza e fragilità non arrivino a far calpestare la dignità.
Credo di aver ascoltato molto di rado parole che semplificano in maniera così stupefacentemente alta e chirurgica tante discussioni sul senso dell’esistenza, sul bene, sul male, sulla morale, sulla fede, sulla giustizia, sui valori. Spero di ricordarmele a lungo.