La questione dei nomi al femminile divide: c’è chi la considera un elemento significativo, simbolico di vero un processo di parificazione, e chi, anche tra le donne, la considera una faccenda un po’ artificiosa, per alcune addirittura ghettizzante e controproducente. La presidente Boldrini è una vera pasionaria sul tema e non passa giorno che non ci giungano informazioni sulla sua battaglia per femminilizzare nomi e qualifiche.
La domanda è: se si vuole portare avanti radicalmente questo processo, non sarebbe necessario stabilire un minimo di regole condivise (al di là delle sentenze della Crusca)? La cosa non è semplice, perché una lingua non si forma in modo scientifico e non si cristallizza ma, come si usa dire, è cosa viva. Certo esprime la cultura di un popolo, i suoi valori, la sua visione de facto dei rapporti di potere e quindi anche di genere e riscrivere tutto da capo per esprimere la nuova concezione dei rapporti uomo – donna non è proprio faccenda di un minuto.
Esempini: ci sono nomi che al maschile finiscono per O e al femminile per A, quindi la distinzione è chiara e sembrerebbe che basti introdurre la finale per A là dove in passato non si è formata: tipo la sindaca. Facile. Ma deve valere per tutto? Perché finora mai nessuno ha proposto la medica? E’ questione di tempo? Oppure la maggior parte delle medico donna non gradirebbero la medica? Oppure si potrebbe cambiare solo l’articolo: la medico?
Poi ci sono i nomi che sia al maschile che al femminile finiscono per E. Qui basta cambiare l’articolo? Ormai lo si fa spesso: su tutti l’accettatissima la presidente, certo non la presidenta. Ma attenzione: ci sono nomi per i quali già esiste il sostantivo femminile: su tutti la presidentessa, e poi la direttrice. Eppure il femminismo doc li rifiuta come discriminanti, come se un presidente fosse più importante di una presidentessa. Per quanto ne so, parecchie giornaliste non vogliono essere chiamate la direttrice di un giornale (magari se dirigi Vogue va bene, se dirigi Il Corriere della Sera no), vogliono essere considerate il direttore del giornale e non si sentono discriminate. Idem per una donna che diriga un dipartimento universitario. Ma se una dirige una scuola la direttrice non fa una grinza. E perché mai? Buffo sarebbe la direttora e mai usato, almeno fino ad ora, la direttore, a differenza della presidente. Forse se l’on Boldrini dirigesse un giornale il problema lo avrebbe posto (anche se, si dirà, presidente è un participio presente, tipo il/la dirigente, ma la cosa ci porterebbe lontano).
E che dire della salumiera o della panettiera o della cassiera? Qui c’è la declinazione già in uso in A di un maschile che finisce in E. La panettiera si sentirà offesa come la direttrice del giornale? Pretenderà, alla Boldrini, di essere considerata la panettiere?
E ancora: nessuna donna “in carriera” che ricopra quel ruolo vuol sentir parlare di amministratrice (femminile che pure esiste) delegata (nemmeno pensare ad amministratora). E l’assistente va bene e non pone problemi perché comincia per vocale e la dizione l’assistente non rivela subito se si tratta di un uomo o di una donna? O per pari dignità dobbiamo abolire l’apostrofo ed esplicitare lo assistente e la assistente? E se il nome di chi presiede la camera cominciasse per vocale, che so l’aresidente anziché la presidente, la Boldrini potrebbe farci risparmiare limitando il rifacimento di carte intestate etc?
E ancora abbiamo la situazione insolita e per il politically correct confusionaria dei nomi maschili che finiscono per A. Il pilota dovrebbe sentirsi discriminato e pretendere di diventare il piloto? E la pilota donna preferirà appunto la pilota o il pilota riferendosi a sé stessa? Che dire dell’atleta, che comincia anche per vocale come l’assistente?
E a capo di un convento di suore ci sarà sempre, come da secoli, la madre superiora? Anche se nell’uso corrente l’aggettivo superiora non mi pare esista: Maria non è superiora a Francesca, ma suor Maria è la madre superiora di suor Francesca; o anche lei pretenderà di essere la madre superiore?
Insomma, c’è da lavorare.