Propongo agli amici un recente articolo sulla comunicazione politica riferito all’ex premier.
Qualsiasi cosa si possa pensare della sua politica, Renzi mi è sempre sembrato una persona talentosa e intelligente. Mi sembra quindi stupefacente come si intestardisca in una impostazione e in un tono di comunicazione che, per le leggi misteriose della psiche collettiva, suonano ormai stridenti e perdenti. Sulla base di quel po’ che so di comunicazione mi sembra che le questioni principali siano due.
La prima: l’arroganza. In determinate situazioni, specialmente in una fase come quella post referendaria in cui avrebbe dovuto porsi innanzi tutto, per lo meno a livello di immagine, come un ricompattatore, è stato, secondo me, un errore posizionarsi un terreno di noncuranza se non di sarcasmo. L’atteggiamento che più ho trovato controproducente è quello sintetizzato dal concetto: “Se se ne vanno, nessuno li seguirà, nessuno se ne accorgerà” (uguale sostanzialmente a “chiessene”). Una vasta fascia della “pancia” del paese non gradisce, anzi ne è infastidita.
La seconda: l’insistenza su un tono ottimistico-colloquiale che suona, sempre in questa fase, come ritardatario, replicante e assolutamente artificioso. Penso ad esempio alla pagina mi pare del 15 febbraio del blog renziano, dedicata al congresso, nella quale l’ex segretario invita tutti a venire, a partecipare, a dire la loro. Volendo sottolineare: io di mio non escludo nessuno, anzi includo e sono benvenuti tutti coloro che vogliono impegnarsi per il confronto, per l’Italia che riparte etc etc.
Si tratta di un’impostazione del discorso, e soprattutto di un tono e di un linguaggio, che a suo tempo avevano funzionato: Renzi si è affermato per tante sue doti politiche ma soprattutto per essersi dimostrato un fuoriclasse dell’innovazione verbale in politica. Ma a un certo punto, se la situazione lo richiede e nel caso di Renzi la situazione lo richiede, bisogna avere la sensibilità, sia pur con molta attenzione, di riposizionarsi nelle sintesi di base del proprio discorso, nell’atteggiamento e nel tono. Lo ha fatto Ronald Reagan; l’ha fatto in qualche momento persino Berlusconi. Sempre per le leggi misteriose della psiche collettiva, ciò che nel tempo A funziona, nel tempo B irrita.
Il consenso politico nell’odierna democrazia si fonda sui grandi temi che tutti gli analisti investigano (in genere fornendoci spiegazioni, spesso banalotte, col senno di poi); ma anche, e forse soprattutto, sulle facce e sul modo di porsi (io la chiamo la sindrome Ayrton Senna, o Baggio, o Federer). In un suo recente libro, Credere, tradire, vivere, Ernesto Galli Della Loggia ricostruisce, con struggente e partigiana nostalgia, la parabola politica di Bettino Craxi e, in alcune pagine veramente bellissime, racconta come furono la persona Craxi, il suo modo di parlare e di porsi, i suoi atteggiamenti più psicologici che politici, a contribuire al suo crollo dopo l’ardimentosa e certamente innovativa conquista del potere. Renzi, che pure da Craxi e dal suo stile è abissalmente diverso, forse farebbe bene a leggerle e a rifletterci un po’ sopra.