Interi settori produttivi in Italia sono stati spazzati via dalla produzione low cost cinese o simile. In qualche caso si è trattato di vere tragedie ma economisti e politici ci dicono, credo in maniera logica e sensata, che il mondo funziona meglio con la globalizzazione, che non possiamo chiuderci, che dobbiamo abbandonare le produzioni per le quali i salari cinesi sono imbattibili e che dobbiamo concentrarci sulle produzioni ad alto valore tecnologico e ad alta intensità di investimenti. I cittadini/consumatori del resto di fatto dànno ragione a questa visione delle cose dato che, pur protestando direi sempre e comunque contro sfruttatori e globalizzatori, si compiacciono dei prezzi bassi (magari prendendosela con produttori o prestatori di servizi italiani che costano di più – “imbroglioni, ma quanto si mettono in tasca!”).
Tutto giusto, tutto sensato. Purchè si tenga ben presente (e non la si dimentichi mai) una cosa: dietro il prezzo di qualcosa c’è (anche) una storia, una lunga storia che comincia più o meno nell’Ottocento, una storia di lotte sociali, di scontri durissimi per orari di lavoro non disumani, per salari dignitosi, per i diritti del lavoro. Una storia che ha poi visto anche gli stati, specialmente in Europa, diventare nel tempo fornitori di tutele, di assistenza, di previdenza, di salute.
Una storia lunga e spesso dolorosa, ma che alla fine, è innegabile, ha dato buoni risultati: ci ha dato la scuola obbligatoria e gli ospedali pubblici, le tredicesime e il diritto di sciopero, le pensioni e l’antinfortunistica, i controlli sui prodotti e le verifiche contro le sofisticazioni. Tutto questo costa; tutto questo entra in campo nel determinare, alla fine della filiera produttiva, il prezzo di un prodotto o di un servizio erogato da europei all’europea. Certamente, poi ci sono speculazioni, esagerazioni, rendite di posizione. Ma in fin dei conti un prodotto e un servizio all’europea meno di tanto non possono costare, perché dietro ci sono questi costi, che chiamerei costi di civiltà.
Dietro un prezzo “cinese” c’è un’altra storia, anzi, rispetto a quella che ho raccontato, c’è una “non storia” di diritti del lavoro, una “non storia” di garanzie e di libertà. E sui mercati è come se ci fosse una competizione tra due giocatori che applicano regole del gioco totalmente differenti. Quello che applica le regole di civiltà perde sempre.
E’ quindi inevitabile che nostre regole diventino sempre più impraticabili, e perciò sempre più precariato, sempre più poche centinaia di euro al mese per chi lavora e sempre meno fondata speranza che il mese prossimo ce li diano ancora, sempre più migranti a due dollari l’ora, sempre meno tutele del lavoro.
E allora dobbiamo metterci tutti e 58 milioni quanti siamo a lavorare alle cose innovative e tecnologicamente avanzate? Ma oggi non le sanno fare anche gli altri e a costi molto più bassi, anche gli altri che pensavamo producessero solo palloni cuciti a mano? Allora rimettiamo dei dazi all’importazione (tornare un po’ all’aborrito protezionismo)? Ma perché funzionino deve essere tutto il sistema “occidentale” a metterli e a difendersi in blocco. Perderemmo i mercati asiatici? Chissà. Ma magari il mercato interno dell’occidente ancora basta e avanza per garantirci un po’ di prosperità.
Chiaramente non so dare una risposta. Ho solo il vago sospetto che forse un pochino di protezionismo non sarebbe quella parolaccia impronunciaile che è diventata in questi ultimi anni di super neo liberismo.