Se tua moglie si innamora di un sergente della legione straniera e hai una figlia di diciassette anni e mezzo, sei perduto: con grande probabilità la giustizia stabilirà che te ne devi andare di casa e che devi darle, naturalmente per il bene della minore, una cifra che in casi estremi ma non troppo ti costringerà a dormire in macchina.
Se incappi nella più clamorosa negazione di ogni principio di equità (e in Italia senz’altro di costituzionalità) che si chiama “quote rosa”, rischi alla grande di restar fuori da un’elezione o da una nomina anche se sei più bravo o più votato della tua concorrente beneficiata dal meccanismo delle quote.
(Esempio: si fa un concorso per quattro posti di Gran Visir di Calatrava e le quote rosa sanciscono che due hanno da essere donne e due uomini. Il concorso avviene in maniera pulita, solo merito e niente raccomandazioni. La prima classificata è un donna; il secondo, il terzo, il quarto e magari anche il quinto sono uomini. Il quarto è spacciato, e anche il quinto, che dovrebbe subentrare nel caso qualcuno rinunciasse: il posto di Gran Visir è della sesta, perché è donna, alla faccia, oltre che della meritocrazia, dell’uguaglianza dei cittadini sancita dai padri (e dalle madri) costituenti. Ritorna così in auge il principio giuridico personalistico di tipo medievale, pre rivoluzione francese, pre Stato territoriale moderno, per cui un certo status, ad esempio di nobile o di prelato, ti dà nella medesima situazione più diritti di un borghese o di un contadino).
Si obietterà che da tempo in molti concorsi si riservano dei posti a categorie che, per motivi o di salute o di particolari vicende storiche, sono più deboli e in qualche caso non in grado di concorrere alla pari degli altri. Tali amano essere considerate le donne nel loro complesso e in quanto tali?
Se poi sono in lizza un uomo e una donna per ricoprire un ruolo di vertice in un’azienda o simile, se chi deve nominare ha la disgraziata idea di nominare l’uomo per motivazioni del tutto professionali, apriti cielo! La perdente, e con lei una eletta schiera di giornaliste commentatrici, subito proclamerà adirata che il vincente ha vinto perché uomo.
Oggi il femminicidio, per le misteriose vie delle culture dominanti di massa, è agli occhi soprattutto dei media (e dei rituali commenti dei politici) più grave dell’omicidio. Se poi un maschio viene sfregiato con l’acido ha una visibilità mediatica di circa un ventesimo rispetto a una donna che abbia subito la stessa terribile violenza. E c’è il rischio che anche le sentenze risentano di questo clima culturale e ideologico dominante.
L’elenco potrebbe continuare. Ma detto questo ed eventualmente altro, è comunque verissimo che, specie in Italia, le donne vivono ancora per moltissimi aspetti come figlie di un dio minore, subiscono discriminazioni, partono svantaggiate e, spaventoso a dirsi, subiscono violenze pare in maniera crescente. La parità vera è lontana.
Ma tra affrontare in modo forte e serio il problema a livello politico, di regole, di cultura, di comportamenti, e creare, sull’onda di neo conformismi correct che sembrano ottenebrare i cervelli, delle talvolta odiose iniquità giuridiche la differenza è grande, e un serio Stato di diritto dovrebbe pensarci sette volte prima di crearle.