Venezia non è solo il più clamoroso insediamento urbano della storia, non è solo una delle maggiori concentrazioni per metro quadrato di splendori e di capolavori del pianeta. E’ anche una storia di gente seria, durata oltre mille anni.
Senza indulgere alla facile autodenigrazione che da noi è quasi uno sport nazionale, dobbiamo comunque dichiarare che l’Italia attuale non si merita né il lascito urbanistico e artistico che ci è capitato addosso senza che noi facessimo niente, né il lascito di ciò che Venezia è stata in termini di senso dello stato, di capacità progettuale pubblica, di attenzione di lungo periodo alle cose che dovrebbero essere la ragion d’essere di una classe politica degna di tale nome.
In epoche dominate da re, imperatori, sultani, zar, duchi, principi e signorotti Venezia ha saputo mantenersi per dieci secoli repubblica e repubblica indipendente. Credo si tratti di un caso unico nella storia mondiale. E’ vero: una repubblica aristocratica e, a partire dal XIII secolo, chiusa. Ma per il vero in tutte le repubbliche greco-latine o comunali e rinascimentali i cittadini con diritti politici erano sempre una parte esigua degli abitanti della città.
Una repubblica dove governavano le leggi e non la volontà di un singolo. Dove gli organi di governo venivano eletti e non nominati. Dove un palazzo di bellezza e ricchezza artistica indicibile, il Palazzo Ducale, non era la reggia di un monarca ma la sede dei consigli di una repubblica.
Una repubblica dove, altro caso sensazionale nell’Italia tardo medievale e rinascimentale, la classe dirigente faceva la guerra, quella di mare, in prima persona, come Roma repubblicana, come l’Inghilterra monarchica ma parlamentare (per la guerra di terra anche Venezia usò i mercenari come gli altri stati italiani e i risultati infatti furono assai meno lusinghieri di quelli che otteneva in mare).
Una repubblica in grado di governare la fragile e preziosa laguna, di punire duramente chi ne alterava gli equilibri. Che deviava le foci dei fiumi, progettava e portava a termine imponenti lavori pubblici. Che progettava e realizzava quella che oggi chiameremmo una grande politica culturale, che ne fece per molto tempo il principale centro culturale, editoriale, artistico, musicale dell’occidente.
Una repubblica dove la nobiltà francese e non solo voleva portare i suoi soldi, ritenendola un posto affidabile e sicuro in un’epoca di selvagge guerre civili e religiose. Una repubblica capace di reggere per secoli, talvolta da sola, il confronto militare e politico con l’impero ottomano. Una repubblica che, pur con tutte le sue normali divisioni interne, i suoi errori e le sue debolezze, era dunque gestita da gente seria, anche molto seria.
Questa grande storia non ce la meritiamo. Ne siamo discendenti indegni. Non siamo in grado da decenni di pensare un progetto moderno, ambizioso e realistico nel contempo, per il suo futuro, un progetto all’altezza della sconfinata grandezza di questa storia. Non siamo stati in grado di costruire qualcosa che possa frenare maree sempre più aggressive. Non sembriamo in grado di decidere niente. Ma noi siamo gente molto, ma molto meno seria.